Roberto Scandone, Vulcanologo, è stato membro della Commissione Nazionale dei Grandi Rischi
Lisetta Giacomelli, Vulcanologa, fa parte dell’Associazione Italiana di Vulcanologia
Si sente spesso parlare in questi ultimi tempi di rischio sismico ai Campi Flegrei; a volte si giunge a dire rischio bradisismico, più raramente si sente la parola Rischio Vulcanico. La cosa è alquanto sorprendente, dal momento che a dirlo sono persone che vivono all’interno dello stesso vulcano, sebbene ora sia in una fase di quiescenza. D’altra parte, è naturale che si pensi istintivamente al rischio che si corre con i terremoti, visto che ormai da vari anni le scosse affliggono con insistenza la zona flegrea. Tuttavia, non si può ignorare che i terremoti sono legati alla natura vulcanica dei Campi Flegrei e che non è possibile valutare quelli senza considerare questa.
Per tentare di inquadrare i problemi di un’area così complessa, non solo geologicamente, è necessario considerare le tante ricerche che i vulcanologi hanno sviluppato che nel corso degli anni, sia sulla situazione attuale che sugli eventi del passato. In un discorso sintetico, che si allarghi su un tempo significativo per la vulcanologia, bisogna partire da 15000 anni fa. È datata ad allora una grande eruzione che sconvolse tutta l’area e che, dopo la rapida emissione di una enorme quantità di magma, ne causò lo sprofondamento. Questo tipo di strutture vulcaniche è definito caldera, per la forma ribassata e circolare che ricordò un grande pentolone ai geologi che coniarono il termine. I prodotti di questa eruzione si vedono lungo il margine dei Campi Flegrei e nella stessa ossatura della città di Napoli, sotto forma di rocce di colore giallo, denominate Tufo Giallo Napoletano.
La morfologia dell’area doveva essere, allora, quella di un grande golfo che andava da Posillipo a Torre Gaveta, da Est a Ovest, e fino a Montagna Spaccata a Nord. Dopo lo sprofondamento del territorio, avvennero in successione molte altre eruzioni, principalmente lungo i bordi dell’insenatura, tutte di rilevanza minore rispetto a quella del Tufo Giallo Napoletano. Le eruzioni avvenivano al limite di un mare poco profondo e avevano un moderato grado di esplosività. Si formarono in questo modo diversi coni di tufo, come quelli ancora visibili al Gauro e a Montagna Spaccata. L’attività non fu continua, ma si concentrò in alcuni periodi, che i vulcanologi hanno definito con il termine di Epoche.
Gli studi di vulcanologia hanno riscontrato che durante queste epoche eruttive, il suolo della caldera si sollevava, non in modo uniforme, ma come un rigonfiamento accentuato nella parte settentrionale, come se si stesse muovendo il coperchio basculante di una botola. Il sollevamento, come avviene in molti altri vulcani, era causato dal magma che si accumulava al di sotto della caldera, e che non riusciva a giungere in superficie per la presenza di rocce a bassa densità, per lo più formate da materiali sciolti, derivanti dalle stesse eruzioni. Questo inibiva la risalita del magma, impedendone il galleggiamento, cioè annullando il principale meccanismo che spinge un materiale fuso, circondato da rocce solide, a muoversi verso l’alto. Quando il sollevamento si accentuava, il magma poteva raggiungere livelli superficiali e provocare eruzioni.
Le fasi di attività hanno delineato nei Campi Flegrei un blocco centrale, che è stato chiamato duomo risorgente, anche questa una struttura tipica di aree vulcaniche simili a quella flegrea. Il blocco in sollevamento delimita la parte centrale della caldera che si estende da Bagnoli a Monte Nuovo da un lato, e dalla Solfatara fino a metà del Golfo di Pozzuoli. Le fratture lungo i bordi del blocco, indotte dallo stesso spostamento, sono quelle che hanno rimesso in moto la risalita del magma, aprendogli la via verso la superficie, fino a sfociare in una serie di eruzioni, fra cui Agnano Monte Spina, Astroni, Cigliano, Averno, Solfatara e molte altre. Il meccanismo del sollevamento basculante si ravvisa anche nella posizione delle bocche eruttive, localizzate prevalentemente a Nord del duomo risorgente, mentre non ve ne sono a mare, nel golfo di Pozzuoli. Le eruzioni di una fase successiva sono avvenute prevalentemente in ambiente terrestre, senza l’interazione fra il magma e l’acqua che fu la causa principale delle fasi esplosive dell’epoca precedente. Tuttavia, nella lunga serie di eruzioni, alcune ebbero un alto grado di esplosività, come Agnano Monte Spina e Astroni, mentre altre furono meno violente, come Cigliano e Solfatara e altre ancora a bassa esplosività, come Accademia e Monte Olibano. In queste ultime eruzioni, fu emessa una lava molto viscosa che si accumulò formando due tozzi rilievi. Nei circa tremila anni successivi a questi eventi, il vulcano rimase in uno stato quiescente e il fondo della caldera cominciò a muoversi verso il basso con una lenta subsidenza. Quando il movimentò si invertì, il Serapeo di Pozzuoli, che era interamente finito sott’acqua, tornò sopra il livello del mare, come era all’epoca della sua costruzione. All’osservazione di questo monumento di epoca romana, straordinario strumento di registrazione dei movimenti dell’area flegrea, si devono le prime intuizioni che portarono alla scoperta del fenomeno chiamato bradisismo, dal greco, lento movimento del suolo. Il sollevamento registrato nelle colonne del Serapeo, erose mentre erano sott’acqua dagli organismi marini, preparava quella che è l’eruzione più recente dei Campi Flegrei, iniziata con una frattura nel mare del golfo, rapidamente propagatasi nell’entroterra fino al paese di Tripergole, le cui case vennero inglobate nel cono di Monte Nuovo.
Dopo l’eruzione di Monte Nuovo, avvenuta nel 1538, il suolo cominciò ad abbassarsi e continuò a farlo fino al 1950. Da allora si sono avuti diversi episodi di sollevamento, accompagnati da terremoti.
Sono questi i sintomi di una ripresa di attività vulcanica? Non possiamo dirlo con certezza anche se in passato è stato così, sebbene non sempre. Prima dell’eruzione di Monte Nuovo, il suolo cominciò a sollevarsi a partire da circa un secolo prima, con alcune intense crisi sismiche. Nel settembre del 1538, avvenne una successione di terremoti violenti che determinò la fuga, e paradossalmente la salvezza, di tutti gli abitanti. Il suolo in poche ore si alzò lasciando in secca i pesci sull’arenile e, dalle fratture che si aprirono nel terreno, uscì prima acqua calda e poi fredda. L’eruzione fu caratterizzata da una bassa esplosività con lancio di pezzi di lava incandescente che ricadevano al suolo accrescendo un rilievo che arrivò a 150 metri di altezza. Non vi furono vittime, tranne una comitiva di curiosi che si spinse sul cratere verso la fine dell’attività e fu sorpresa da una singola esplosione che causò ventidue morti. I danni maggiori furono di carattere economico, dalla completa distruzione fino al paese di Pozzuoli, a causa delle scosse sismiche che accompagnarono l’eruzione, alla perdita delle sorgenti termali, attività fiorente fin dai tempi dei romani, rimaste sepolte sotto il cono o abbandonate per la grande paura sollevata dall’evento.
Dopo l’eruzione del 1538, il suolo ha ripreso a scendere con una velocità media di un centimetro all’anno nell’area centrale della caldera. All’inizio del 1800 il pavimento del Serapeo era di nuovo coperto dall’acqua del mare. Solo nel 1950 si sono avuti i primi segnali di un’inversione del movimento, inizialmente senza altri fenomeni. Due crisi importanti sono avvenute nel 1970-72 e 1982- 84, accompagnate da un rapido sollevamento (170 e 182 cm rispettivamente) e da scosse sismiche. Successivamente, una graduale discesa continuò fino al 2006, quando il movimento si è nuovamente invertito, con velocità di un ordine di grandezza inferiore a quelle delle crisi precedenti. Un’accelerazione nella risalita del suolo si registra nel 2023-2025, accompagnata da violente crisi sismiche la cui energia ha ormai superato quella liberata nel 1982-84.
Risulta evidente dai molti dati raccolti che la sismicità accompagna unicamente le fasi di sollevamento e che l’energia dei terremoti è tanto maggiore quanto maggiore è la velocità di spostamento del suolo verso l’alto.
Un importante risultato ottenuto dall’analisi della distribuzione dei terremoti è che non sono localizzati casualmente. Alcuni studi recenti, che si sono avvalsi anche dell’intelligenza artificiale, sono giunti alla conclusione che gli ipocentri delle scosse sismiche definiscono il bordo del blocco risorgente. Se questo avvalora le ipotesi già fatte, i nuovi dati sui meccanismi focali chiariscono il senso del movimento del blocco, confermando che tende ad aprire fratture sul bordo Nord e a comprimere l’area lungo il bordo nel golfo di Pozzuoli, esattamente come si riteneva fosse accaduto nelle epoche eruttive meno recenti e con l’eruzione di Monte Nuovo.
In conclusione, i fenomeni in corso nei Campi Flegrei lasciano presumere che una massa di magma, dalla profondità fra i 4 e i 5 km, stia spingendo obliquamente il blocco risorgente, il quale cerca di sganciarsi dal bordo settentrionale. L’evoluzione di questo movimento non è prevedibile che giorno dopo giorno, con le numerose e possibili variazioni di tutti i parametri in concorso, come in ogni altro fenomeno legato alla superficie terrestre e alla natura particolarmente instabile dell’area Flegrea.

I terremoti avvenuti negli ultimi due anni sono distribuiti attorno a margini del blocco risorgente. Quelli avvenuti nel golfo danno indicazione di un meccanismo compressivo, mentre gli altri hanno una componente tensionale. Un maggiore addensamento si ha attorno all’area della Solfatara Pisciarelli.