L’America’s Cup fa male alla Napoli pubblica. E un classismo sempre più egemone fa festa

di Lucia Tozzi, Altreconomia, 6 giugno 2025 *

Napoli festeggia l’America’s Cup 2027 come una grande vittoria. Barcellona ha festeggiato, invece, a ottobre 2024, quando è arrivata la conferma ufficiale da parte delle autorità che la competizione si sarebbe spostata altrove. I giornali italiani si accapigliano per intervistare politici, velisti, armatori, economisti che snocciolano numeri straordinari: da 700 milioni a 1,5 miliardi di indotto, da 1,2 a 1,5 milioni di visitatori, da 10000 a 12000 posti di lavoro temporaneo e 1000-2000 a lungo termine nel settore nautico. Le stime sono basate su uno studio dell’Università di Barcellona e della Barcelona Capital Nautica Foundation, calcolate sul presunto impatto dell’edizione dell’anno scorso in Catalogna, che però è stato oggetto di contestazione da parte dei cittadini e di alcuni giornali locali. Sul periodico Directa è emerso per esempio che il numero dei visitatori è stato calcolato contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati ex post (e del resto a San Francisco nel 2013, dove pure erano stati previsti 2,6 milioni di visitatori, quelli effettivi furono 182000, a Auckland nel 2021 se ne contarono 52000 a fronte di 860000 previsti). Che l’audience globale non è stata, come viene spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8 – meno di un decimo. Che i finanziamenti pubblici a fondo perduto ammontano a 58,8 milioni. Le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto perdite per 3,5 milioni di euro.

I post della piattaforma “No a la Copa América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il lavoro, come è successo anche a EXPO2015 a Milano, è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si portano i loro lavoratori specializzati ai catalani è stato chiesto di fare volontariato. In una Barcellona massacrata dal turismo e in lotta contro il caro affitti le manifestazioni sono imponenti: “Dobbiamo essere felici che questa competizione elitaria, che non ha suscitato alcun interesse nel nostro Paese, che ha comportato un’enorme spesa pubblica e che è stata giustificata con cifre falsificate, non si terrà più a Barcellona”.

Ma a che servono quindi i grandi eventi, se non portano né flussi di turisti, né di ricchezza, né di lavoro qualificato, né comunicazione quanto promettono? Sappiamo con certezza che molte città e stati si sono indebitati anche gravemente per farli: le Olimpiadi furono uno dei fattori scatenanti della crisi in Grecia, Torino è diventata la città più indebitata d’Italia per le disastrose Olimpiadi 2006, a Milano nonostante la propaganda è dimostrato che l’EXPO ha generato un debito pubblico di un miliardo e mezzo, e la lista è lunghissima. Tanto che le competizioni per la candidatura sono sempre meno frequentate, con l’eccezione di paesi molto ricchi e autoritari in cerca di pubblicità e delle città italiane: l’endiadi Milano-Cortina, per esempio, era praticamente rimasta sola in lista per le Olimpiadi invernali, e Napoli, secondo gli stessi organizzatori dell’evento, ha letteralmente salvato la Coppa che non trovava una sede dopo il rifiuto di Barcellona. Sta prendendo uno scarto, reso ancora più misero dal ritiro di due dei team più prestigiosi – la svizzera Alinghi Redbull di Bertarelli e Ineos Britannia, predisponendosi a pagarlo carissimo.

Qual è quindi la vera funzione dei grandi eventi? Essenzialmente quella di conferire poteri straordinari a chi governa, aggirando le leggi ordinarie, i piani regolatori esistenti, gli organismi di controllo, le procedure, a volte persino il corso della giustizia. Il sindaco Gaetano Manfredi aveva bisogno di questo evento per forzare la mano su Bagnoli e sull’intera linea di costa, cioè per affossare definitivamente la Variante urbanistica del 1998 che destinava l’area dell’ex Italsider a parco pubblico e spiaggia pubblica, bloccata per più di trent’anni dagli interessi immobiliari, e per liberarsi di tutti quegli oppositori – dalla Soprintendenza agli attivisti come Mare Libero che si battono per l’accesso pubblico e gratuito al litorale – che ostacolano la privatizzazione e mercificazione delle coste. Già Commissario straordinario a Bagnoli per le bonifiche, ora il sindaco diventa anche Commissario per la Coppa America, e può agire in fretta e in segretezza. “Questo è il segno che oramai le decisioni si prendono in sedi diverse da quelle delle assemblee democratico rappresentative – commenta Carlo Iannello, professore di diritto costituzionale presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e autore di Lo stato del potere, appena pubblicato da Meltemi – I poteri pubblici della tradizione liberal-democratica erano trasparenti perché dovevano essere controllabili. Oggi hanno subito una mutazione genetica. I poteri pubblici si comportano come le imprese private: siedono a tavoli di concertazione come se fossero anche loro stakeholders, cioè portatori di interessi (privati). Le decisioni sono prese in queste sedi opache e le assemblee elettive, nel migliore dei casi, sono chiamate solo a ratificarle”.

E così gli abitanti di Bagnoli, già messi in fuga dal bradisismo, ora saranno espulsi anche dalla gentrificazione immediatamente innescata dal sogno mistico dei velisti, una specie semidivina che si installerà per due anni in città spendendo milioni di euro e spandendo bellezza e prestigio cosmopolita. Mentre i fondi immobiliari e i costruttori locali preparano i rendering di hotel di lusso, palazzoni esclusivi in classe a e altre icone della “rigenerazione urbana”, pregustando le plusvalenze sul sito ex industriale, armatori e gestori di boe, imprenditori della cantieristica e gestori di stabilimenti balneari e porticcioli turistici sono in fermento. Si aspettano un grande piano di valorizzazione svincolato delle norme ambientali, che metta finalmente a tacere le ragioni di chi vuole aprire l’uso di spiagge e scogli a tutti gli abitanti e non solo a ricchi e turisti: nella delibera di indirizzi del PUA (Piano Urbano Attuativo) in discussione in questi giorni al Comune si legge di nuovi chioschi sul lungomare, nuove piattaforme lignee, nuove attrezzature e strutture a carattere stagionale (quindi a pagamento, perché andranno gestite, e selettive), più l’allargamento dei porticcioli turistici, la creazione di parcheggi e infine piste ciclabili e opere di potenziamento del trasporto pubblico.

In una città di oltre 900000 abitanti, secondo le rilevazioni di Mare libero e pulito, solo il 4% del litorale sabbioso è accessibile a tutti: poco più di 6000 metri quadri. Il resto delle spiagge, degli scogli e delle banchine è vietato, proprietà privata o in concessione. In compenso, nel golfo di Napoli circolano oltre 63000 imbarcazioni, circa un decimo del numero totale stimato in Italia. Nel solo porticciolo di Mergellina sono stipati circa 750 yacht di lusso. Il costo medio per un ormeggio stagionale è di 12000-15000 euro, mentre il consumo medio di carburante varia dai 10 litri all’ora di un gommone da 40 cavalli ai 400 all’ora per uno yacht di 25 metri. In altre parole, alcune decine di migliaia di persone molto benestanti impattano con inaudita violenza sull’ecosistema marino e monopolizzano il mare napoletano, ma ancora non basta. Perché i posti barca sono largamente insufficienti (16500) e gli imprenditori della blue economy vogliono, anzi esigono, che altri moli, porti, strutture alimentino ancora ”l’attrattività” locale.

Anche solo a guardarlo da lontano, lo spettacolo domenicale di questa flotta infinita che dal centro del golfo si dirige verso le isole fa impressione: è un’autostrada del mare, talmente affollata che poi non sa dove dirigersi. Qualsiasi baia diventa un megaparcheggio marino a perdita d’occhio in cui è non solo sgradevole, ma anche pericoloso bagnarsi. Com’è possibile pensare di implementare ancora lo sviluppo di un’economia così insostenibile e diseguale?

Nel regime di classismo tecnocratico che si fa sempre più egemone a Napoli, è possibile. E l’America’s Cup è lo strumento per farlo.

* articolo pubblicato su Altreconomia