Una giornata d’estate del 1911 alla spiaggia di Bagnoli

Bagnoli nella sua storia ha avuto diversi caratteri: attualmente è occupato essenzialmente da edilizia residenziale, ma nel secolo scorso è stato un importantissimo polo industriale. Se, però, andiamo indietro nel tempo, prima che si installassero gli impianti industriali, Bagnoli era un territorio agricolo con una caratteristica particolare, era, cioè, un polo termale.  Il nome stesso, Balneolis indica la presenza di bagni termali. Questi si svilupparono all’inizio del XIX secolo, quando fu costruita la strada che dalla grotta di Posillipo, conduceva a Pozzuoli lungo la litoranea. Le terme ottocentesche erano diverse, la maggiore delle quali  costruita dal marchese Giusso al quale è intitolata la omonima via.

Per capire l’ambientazione dell’area termale si possono leggere le pagine che seguono, scritte da mio padre nel suo diario, scritto a mano, con penna inchiostro, in una interminabile serie di quaderni. Il diario, che narrava tutte le vicende personali e familiari, non era scritto per essere letto da altri, ma, come i veri diari, era scritto solo per fermare ricordi, sensazioni, pensieri da rileggere in futuro. Io lo ho letto recentemente, molti anni dopo la sua morte, e ho capito tante cose di lui che non avevo capito quando era in vita.

Umberto Oreste

Alla spiaggia ci accompagnava mia madre e si andava a Bagnoli, ovvero “a li bagnoli” come diceva in dialetto pugliese. Al venire dei primi calori, mammà ci faceva prendere dal fondo di un armadio i costumi da bagno ed io mi ricordo che provavo un piacere indefinito nell’odorarli intensamente e sentire l’odore del mare che era rimasto dall’anno precedente. Il giorno del primo bagno della stagione era una festa per me; si riponevano quegli indumenti marini in due borse di ruvida stoffa dove erano ricamate in rosso due frasi, su l’una “ Buon viaggio” e sull’altra “Buon bagno”; poi mammà preparava un gavettone di zinco che papà aveva fatto costruire apposta per l’uso con coperchio, dove si riponeva la minestra di fagioli che si portava alla spiaggia. Ci si avviava dunque alla Ferrovia Cumana ed è da notarsi che il breve viaggio in treno era la cosa che mi piaceva di più, molto di più che il tuffarmi in acqua, ma in mia difesa si tenga presente che avevo solo cinque anni. Alla stazione vi era gran folla e, dopo essere riusciti a fare i biglietti, si saliva su una sala terrazzo chiusa da cancelli che si aprivano solo al momento di accedere al treno. Da questa terrazza non alta, si vedeva la sottostante piazza di Montesanto con i fabbricati limitrofi; mi ricordo che su un balcone di fronte vi era un tabellone reclamistico di un dentista e vi era scritto a grandi lettere nere il suo nome “Colaneri”. Io non sapevo leggere ma guardavo con gran paura quel cartellone in quanto mi avevano detto che quel dentista era stato carcerato perché tirava tutti i denti ai giovani che lo volessero per non andare soldati. Io guardando quel balcone mi immaginavo esservi dentro un orco feroce mezzo uomo e mezzo mostro animale.

Finalmente i cancelli si aprivano e la folla correva al treno per occupare i posti e non perderli restando in piedi. Figuratevi se io non corressi con le gambette nuove nuove…e la lanterna magica che mi passa davanti ai chiusi occhi stanchi continua…ma perché tremo di paura e mi aggrappo alla gonna di mammà? Una scena triste si presenta ai miei occhi, due carabinieri conducono in fila quattro o cinque galeotti, legati coi ferri e vestiti dell’abito a strisce e li conducono ad un treno speciale sul binario attiguo, che li avrebbe condotti all’ergastolo di Nisida. Li vidi entrare nella vettura con le grate ai finestrini e sorridere al di dietro di esse. Ebbi paura, ma nei piccoli le nuvole tristi passano presto. Eccoci nel treno e, naturalmente vicino al finestrino per godermi il paesaggio; ma nel frattempo che si aspettava la partenza mi godevo un’altra cosa che mi attirava fortemente ed era l’odore del vapore che produceva il carbon fossile a cubetti di cui era piena la macchina; aspiravo a narici aperte quell’aria e mi beavo. Avrei voluto stare in piattaforma, ovvero in quel terrazzino esterno che avevano allora le vetture stile liberty, ma mammà non me lo permetteva ed io spostavo la testa ed il collo verso di esso per vedere meglio la locomotiva che veniva subito dopo quella vettura. Ecco che avviene quello che con ansia aspettavo; un fischio acuto e potente, più che non lo richiedesse quel trenino, lacerava l’aria e a volte veniva schizzata sui più vicini una pioggia di acqua calda che usciva dalla caldaia, la qual doccia faceva brontolare mia madre che vedeva in pericolo il candore del mio vestitino e faceva diventare fiero me di averla ricevuta, come se avessi sfidato un pericolo.

Ecco dunque che il treno si muove ed imbocca la galleria. L’entrare di corsa in quel tunnel dove il fumo della macchina si riversava nelle vetture mi dava un sentimento misterioso verso quel mostro di ferro che il Carducci descrisse così bene. Vi si aggiungeva il rumore delle ruote sui binari ed io avevo l’impressione di spingermi vittorioso nell’inferno. Il ricomparire della luce al termine della galleria mi dava un senso di piacere che a volte si traduceva anche nel battere le mani e nell’esclamare un lungo “oh!” di contentezza. A Fuorigrotta il treno si fermava un poco di più perché ivi eravi la cinta daziaria e sul treno salivano i benemeriti delle fiamme gialle per vedere se i viaggiatori avevano merce soggetta a dazio con conseguente pagamento. Io ero, come ho detto, affacciato al finestrino e giocherellavo con una palla di gomma; ad un tratto la palla mi cadde dalle mani e rotolò sul suolo della stazione. Un doganiere allora che si accingeva a salire sul treno per il suo compito, la raccolse e salì sul treno. Non appena io vidi il gesto e lo vidi venire verso di me per restituirmi la palla, fui preso da una paura tale che tremavo come una foglia perché credevo che quello volesse punirmi o incarcerare.

Dopo la stazione di Fuorigrotta io ero più contento perché non vi erano più gallerie per tutta la durata del viaggio ed io mi godevo tutto il paesaggio della campagna che fin da allora mi attirava fortemente; quando poi il treno si fermava un poco per ragioni di percorso in qualche sito completamente fra il verde, tra i fichi, l’uva e l’erba di campo, io godevo a sentire quel silenzio profondo reso ancora più sensibile dal cessare del fragore del treno, e mi piaceva sentire il ronzio degli insetti che volavano tra foglia e foglia; ma quel che più mi attirava era l’odore delle erbe che ho sempre preferito a quello dei fiori. I binari del treno erano fiancheggiati per parecchie centinaia di metri da folte siepi di erbe che il volgo chiamava “ ’e fetienti” volendo alludere al cattivo odore di selvatico e di pepe. Quanto mi piaceva quell’odore e non sapevo come avessero preso quelle foglie quel nome così spregevole. Anche oggi vorrei risentirne l’odore, ma da allora non mi è capitato più di incontrare quelle vegetazioni e avrei tanto piacere di sentirne ancora l’odore.

Ed eccoci quindi poco dopo a Bagnoli; mi ricordo che proprio vicino al binario c’era un fornaio da dove si vedevano e si odoravano delle pagnotte allora allora sfornate e mi piaceva tanto ciò nel mentre un pescatore scalzo vendeva alici dando la caratteristica voce di vendita, il tutto contornato da venditori di fichi e di melloni; insomma si era al completo per essere felici. Poi ci si incamminava per l’unica strada che portava alla spiaggia formata da poche palazzi liberty. A sinistra c’era un cortiletto all’aperto: era di una trattoria ed al centro vi era una vasca dove sorgeva un gruppo di gesso di Delfino e Amore aggrovigliati l’uno all’altro. Naturalmente io non sapevo cosa rappresentasse quel gruppo ma mi piaceva e lo guardavo a lungo, tanto che mammà mi tirava per mano per non farmi indugiare. Il mare veramente non mi attirava, non perché lo avessi in uggia ma mi faceva nascere un po’ di emozione che poteva chiamarsi paurella di immergersi nell’acqua.

Nella piazzetta soleggiata al torrido c’erano tre bagni marini che si allungavano nel mare al seguito di altrettanti bagni termali con fabbricati in muratura in modo che per entrare in quelli bisognava passare per questi. Noi andavamo a quello di centro che era più modesto degli altri e si chiamava “Terme Masullo” ed il padrone era un certo don Aniello dai lunghi baffi alla Umberto I, dal viso abbronzato dal mare, dalla camicia non stirata bianchissima che faceva contrasto con il viso. Questi ci salutava come vecchi conoscenti e clienti abituali. A volte mammà gli portava in regalo un sigaro e quello ci faceva scansare la lunga attesa per aspettare il turno per accedere nelle cabine e spogliatoi dove vi si entrava aspettando la chiamata di una numerazione dato il grande affollamento sulla sala pensile che con pali era infissa nell’acqua. Quella sala o veranda ombreggiata da un tetto di stuoie e di tendaggi aveva a disposizione del pubblico un pianoforte naturalmente scordato perché maneggiato da tutti, e non mancavano i soliti due carabinieri col cappello a lucerna e la giubba a coda di rondine, malgrado il caldo.

Non appena entrato in cabina mi affacciavo al finestrino e guardavo la plaga marina al di sotto di pochi metri proprio come dice Dante “voltato all’acqua perigliosa e guata”. Perigliosa perché io avevo una gran paura e adesso incominciava il bello perché volere o non volere mi dovevo tuffare in acqua, cosa che non mi andava a genio! Oh! Come avrei voluto camminare sulle acque come nostro signore ed andare sulla spiaggia senza passare per essa. Mammà dunque mi prendeva in braccio e per la lunga scaletta a circa dieci e più scalini scendevamo nell’acqua non senza strilli e pianti da parte mia. Ma nei bambini questi durano poco, ed eccomi sulla spiaggia a giocare a fare fossette nella sabbia.

Non essendoci qui pericolo mammà si allontanava di pochi passi ma tenendomi sempre sotto i suoi sguardi. Dove andava? Poco distante c’era un viadotto in muratura che dall’abitato del paese si scaricava in mare. Questa specie di corridoio coperto versava nel mare tutte le acque termali che ne venivano dai bagni di fango e di sulfurei che nelle vicinanze ve ne erano più d’uno. L’acqua già usata da quei bagnanti naturalmente riscaldava e faceva quasi cocente il mare vicino a quello sbocco. Mammà che era già quasi attempata negli anni incominciava ad aver dolori reumatici comuni a quella età sostava in quell’acqua di rifiuto che aveva già giovato ad altri; e diceva: oh! come è bella calda e cercava di giovarsi. Povera mamma mia si adoprava per la mia salute e divertimento facendomi fare i bagni “marini” mentre avrebbe avuto bisogno di frequentare le terme in piena regola. Continuando a giocare sulla spiaggia vedevo pure a breve distanza lo spazio di proprietà della Casa Ravaschieri per i piccoli storpi e vedevo quei bambini che assistiti dalle monache giocavano sulla sabbia poco discosti da me, e mi facevano una pena e nello stesso tempo, anche senza saper formulare la frase, col pensiero ringraziavo Iddio e pensavo con terrore come avrei sofferto se mi fossi trovato nelle loro condizioni, e principalmente per non stare a casa paterna vicino alla mamma. Una volta mi fu indicato un uomo di mezza età che si arrabattava comicamente nell’acqua per imparare a nuotare. Quando fu vestito, dopo il bagno e comparve sulla veranda, era un capitano con tanto di sciabola; allora io mi feci le più grandi meraviglie… come? E perché? Mi pareva impossibile che un capitano non sapesse fare qualche cosa. E così il bagno finiva e mammà mi riportava su nella cabina di tavole. Tra le fessure tra una tavola e l’altra io fissavo lo sguardo per vedere nella cabina attigua, ma così per gioco senza malizia. Poi mammà mi prendeva di peso gocciolante e mi avvolgeva in un ampio e ruvido lenzuolo per asciugarmi ed io davo di piglio alla colezione.

E così si era sulla via del ritorno sulla stessa strada. Si giungeva alla stazione della ferrovia cumana e nell’attesa che arrivasse il treno si attendeva sullo spazio che fiancheggiava i binari; mammà mi raccomandava di non avvicinarmi alle rotaie che il treno poteva da un momento all’altro spuntare da quella svolta campestre fra le alte siepi dove finiva la stazione e dove io guardavo come nel mondo dell’ignoto perché oltre Bagnoli non vi ero mai andato e da quella svolta inoltre per me era l’incognito misterioso. Mammà mi comprava un pasticciotto da un soldo che aveva la forma di un cuscinetto rettangolare, da un venditore ambulante che sostava nella stazione ed io andavo qua e là lungo il vialone cercando a volte di eludere la sorveglianza materna per spingermi fino a quella svolta alla quale si arrivava percorrendo un filare di alberi selvatici lungo il marciapiede parallelo alle rotaie. Tra gli alberi ed il viale vi era un siepone di quelle tal erbe “fetienti” di cui ho già parlato e al di là dei campi, campi, campi, campagna, campagna. Io inseguivo le lucertole fra quelle siepi ma principalmente mi munivo di una “mazza” o canna, o lungo sterpo che strappavo fra quelle erbe.

Questa mazza o canna era un trastullo di cui io mi servivo, salito sul treno di usarla nella corsa della vettura per percuotere i vari oggetti che pur stando fermi, mi fuggivano davanti agli occhi dalla corsa del treno veloce, quali siepi, alberelli, steccati e qualche volta anche qualche oggetto che sarebbe stato mio dovere lasciare in pace come per esempio qualche panno steso ad asciugare fuori l’abituro di qualche contadino o i lumi che ad intervallo illuminavano fiocamente la galleria. Quando il treno giungeva mia madre mi tirava energicamente indietro ed io nella piccola mente di bambino sospiravo il momento di essere giovanotto per poter salire sul predellino quando il convoglio ancora non si fosse fermato completamente. Salivo quindi con la mia brava mazza, pacifico strumento delle mie scorrerie. Cercavo sempre di indurre mammà a farci salire nell’ultima vettura di coda perché mi piaceva, guardare al di là del terrazzino di ferro più ampia parte del paesaggio, e specie imboccando un tunnel mi divertivo a vedere l’apertura di esso rimpicciolire man mano fino a diventare un punto luminoso e poi immaginarmi nella tenebrosità dell’interno, ammirare quello spettacolo direi quasi terribile da un posto sicuro, cioè quello seduto accanto alla mamma. Il più delle volte poi stanco ed accaldato mi addormentavo in modo che alla stazione di Montesanto mammà mi doveva svegliare per trascinarmi sonnolento fino a casa. E così termina il racconto di un bagno della mia infanzia che rimonta pressappoco all’anno 1911.

dal diario di Oscar Oreste, 6 agosto 1969